Battaglie In Sintesi
2 Luglio 1798
Nacque ad Ajaccio il 15 agosto 1769, morì a Longwood, nell'isola di S. Elena, il 5 maggio 1821; figlio di Carlo e Letizia Ramolino. Collegiale ad Autun, Brienne, Parigi, fu poi luogotenente d'artiglieria (1785) e tentò in seguito la fortuna politica e militare in Corsica (nel 1791 era capo-battaglione della guardia nazionale ad Ajaccio, nel febbraio 1793 condusse il suo battaglione di guardie nazionali nella spedizione della Maddalena, miseramente fallita, nell'aprile-maggio 1793 prese posizione, con il fratello Luciano, contro P. Paoli, per cui dovette fuggire in Francia). Comandante subalterno nel blocco di Tolone (ottobre 1793), si acquistò il grado di generale e quindi il comando dell'artiglieria dell'esercito d'Italia. Sospettato di giacobinismo per l'amicizia con A. Robespierre, subì un breve arresto; destinato a un comando in Vandea, rifiutò e fu radiato dai quadri (aprile 1795). Divenuto amico di P. Barras conobbe presso di lui Giuseppina de Beauharnais (che sposò il 9 marzo 1796); e per incarico di Barras difese energicamente la Convenzione contro i realisti (13 vendemmiale). Ottenne così il comando dell'esercito dell'interno, poi di quello d'Italia. Presa l'offensiva (9 aprile 1796), batté separatamente (Montenotte, Millesimo e Dego) gli Austro-Sardi, costringendo questi ultimi all'armistizio di Cherasco (28 aprile 1796), quelli, dopo le vittorie di Lonato, Arcole, Rivoli, e la resa di Mantova, ai preliminari di pace di Leoben (18 aprile 1797). Occupata la Lombardia, ricostituisce sul modello francese le repubbliche di Genova e di Venezia e toglie al papa la Romagna (armistizio di Bologna, 23 giugno 1796; trattato di Tolentino, 18 febbraio 1797). Poi, col trattato di Campoformio (17 ottobre 1797), conferma alla Francia il Belgio e le annette le Isole Ionie, ponendo fine all'indipendenza di Venezia, il cui territorio passava all'Austria (ad eccezione di Bergamo e Brescia incorporate nella nuova Repubblica Cisalpina). Preposto, a Parigi, a una spedizione contro le isole britanniche, la devia verso l'Egitto, ove sbarca il 2 luglio 1798 e vince alle Piramidi, in Siria (ma è fermato a S. Giovanni d'Acri), ad Abukir (dove la sua flotta era stata, il 1° agosto, distrutta da Nelson). Tornato in Francia con pochi seguaci (9 ottobre 1799), vi compie, un mese dopo (18 brumaio), un colpo di stato, con la dispersione del Consiglio dei Cinquecento e la sostituzione del Direttorio con un collegio di tre consoli, assumendo egli stesso il titolo di primo console. Ripresa la guerra contro i coalizzati, valica le Alpi (primavera 1800), vince a Marengo (14 giugno 1800) gli Austriaci costringendoli alla pace di Lunéville (9 febbraio 1801), cui seguono profonde modificazioni territoriali in Italia (annessione alla Francia di Piemonte, Elba, Piombino, Parma e Piacenza; costituzione del regno di Etruria); conclude con l'Inghilterra la pace di Amiens (25 marzo 1802). Console a vita (maggio 1802), sfuggito alla congiura di G. Cadoudal (1803), assume su proposta del senato la corona d'imperatore dei Francesi (Notre-Dame, 2 dicembre 1804) e poi quella di re d'Italia (duomo di Milano, 26 maggio 1805). Nei tre anni di pace (rotta, però, con l'Inghilterra già nel maggio 1803), spiega una grande attività ricostruttiva: strade, industrie, banche; ordinamento amministrativo, giudiziario, finanziario accentrato; pubblicazione del codice civile (21 marzo 1804; seguirono poi gli altri); creazione di una nuova nobiltà di spada e di toga; concordato con la S. Sede (16 luglio 1801). Formatasi, per ispirazione britannica, la 3ª coalizione (Inghilterra, Austria, Russia, Svezia, Napoli), la flotta franco-spagnola è battuta a Trafalgar (21 ottobre 1805) da quella inglese comandata da Nelson, ma Napoleone assedia e batte gli Austriaci a Ulma (15-20 ottobre), gli Austro-Russi ad Austerlitz (2 dicembre) e impone la pace di Presburgo (26 dicembre 1805: cessione di Venezia e altre terre austriache alla Francia e ai suoi alleati tedeschi). Assegna il Regno di Napoli (senza la Sicilia) al fratello Giuseppe, quello di Olanda al fratello Luigi, e forma la Confederazione del Reno (luglio 1806). Alla 4ª coalizione (Russia, Prussia, Inghilterra, Svezia) oppone le vittorie di Jena e Auerstedt (14 ottobre 1806) sui Prussiani, l'occupazione di Berlino e Varsavia, le vittorie sui Russi a Eylau (od. Bagrationovsk, 8 febbraio 1807) e Friedland (14 giugno) cui segue la pace di Tilsit (8 luglio 1807), vera divisione dell'Europa in sfere d'influenza tra Francia e Russia con l'adesione della Russia al blocco continentale contro l'Inghilterra (bandito il 21 novembre 1806), e con la formazione del granducato di Varsavia (al re di Sassonia) e del regno di Vestfalia (al fratello Girolamo). Messo in sospetto dall'atteggiamento della Spagna, la occupa (dal maggio 1808) e ne nomina re il fratello Giuseppe (sostituendolo a Napoli col cognato Gioacchino Murat); ma la guerriglia degli Spagnoli, indomabile, logora lentamente le sue forze militari, mentre la lotta contro la Chiesa (occupazione di Roma, febbraio 1808; imprigionamento del papa Pio VII, 5 luglio 1809) gli sottrae popolarità presso ampi settori sociali. Debella quindi, non senza fatica, in Baviera (19-23 aprile 1809) e a Wagram (6 luglio) la 5ª coalizione, capeggiata dall'Austria, e impone la pace di Schönbrunn (14 ottobre 1809), che segna l'apogeo della potenza napoleonica, per gli ampliamenti territoriali che il trattato e i successivi provvedimenti portano all'Impero francese e ai suoi satelliti. Coronamento della pace, dopo il ripudio della prima moglie, sono le nozze (1° aprile 1810) con Maria Luisa d'Austria e la nascita (20 marzo 1811) del "re di Roma". La Russia, allarmata per le mire napoleoniche, aderisce alla 6ª coalizione: Napoleone la invade (24 giugno 1812), vince a Borodino (7 settembre), occupa Mosca (14 settembre); ma la città è in preda alle fiamme e Napoleone è costretto a iniziare verso la Beresina una ritirata disastrosa, poi vera fuga, mentre governi e popoli di Russia, Prussia e infine d'Austria (10 agosto 1813) si sollevano contro di lui. Né l'offensiva ripresa nella Sassonia (maggio 1813), né le trattative con i coalizzati gli giovano; la sconfitta di Lipsia (16-19 ottobre 1813) lo costringe a sgombrare la Germania e a difendersi sul suolo francese (inverno 1813-14). Il 31 marzo 1814 gli Alleati occupano Parigi e il 6 aprile Napoleone abdica senza condizioni accettando il minuscolo dominio dell'isola d'Elba, ove giunge il 4 maggio 1814. Ma, sospettando che lo si voglia relegare più lontano dall'Italia e dall'Europa, sbarca con poco seguito presso Cannes (1° marzo 1815) e senza colpo ferire riconquista il potere a Parigi (20 marzo). Il tentativo dura solo cento giorni e crolla a Waterloo (18 giugno 1815). Dopo l'abdicazione (22 giugno), Napoleone si rifugia su una nave inglese: considerato prigioniero, è confinato, con pochi seguaci volontari, nell'isola di S. Elena, dove a Longwood, sotto la dura sorveglianza di Hudson Lowe, trascorre gli ultimi anni, minato dal cancro, dettando le sue memorie. Le sue ceneri furono riportate nel 1840 a Parigi, sotto la cupola degli Invalidi. La sconfitta definitiva di Napoleone ebbe per la Francia gravi conseguenze: occupata per tre anni dalle potenze nemiche, fu obbligata a pagare esose indennità di guerra; dopo un periodo di relativa pace sociale visse lo scoppio del malumore e della vendetta del mondo cattolico.
Non andrò ricercando se la spedizione di Egitto venne risoluta perché il general Bonaparte toglier volevasi all'intestine discordie, ed evitare le calamitose vicende, che prevedeva sotto il governo del Direttorio, tutti i membri del quale non gli erano amici; o se il Direttorio spiando l'occasione d'allontanare un generale, la cui ambizione facevagli ombra, ne fece nascere l'occasione egli stesso. Ciò che mi è avvenuto rilevare tanto all'armata, che allo Stato Maggiore dalla bocca d'officiali, che mi parevano perfettamente istruiti, mi ha persuaso che il general Bonaparte ha in realtà concepito il disegno di porre in rivoluzione l'Oriente, ma che abbagliato dal successo della pace di Campio Formio, la quale fu opera sua, avrebbe allora preferito di rendersi padrone del potere in Francia: la spedizione d'Egitto non fu pelesso che il partito peggiore. A siffatta impresa un anno avanti rivolto egli aveva il pensiero, mentre trovavasi in Italia, ed a tale oggetto aveva ordinato raccogliersi molti scritti tolti dalle biblioteche di Milano, di Bologna e di Firenze. Erangli pure stati presentati dei piani per propagare i principj rivoluzionari nell'isola di Malta, e sino da Parigi gli furono inviate delle memorie manoscritte più o meno interessanti relative all'Egitto. In un momento di tranquillità al Cairo ho avuto luogo di vederne diversi estratti nei cartoni dello Stato Maggiore, ed ho presi degli appunti sopra una di tali memorie, che mi ha sembrato contenere le vedute più atte a determinare all'impresa. Credo che autore ne fosse il signor Magellou nostro console generale in Egitto, il quale per mezzo di scritti confidenziali ha più d'ogni altro influito sopra la determinazione del governo direttoriale, e di Bonaparte medesimo. Fino dal 1790, l'autore aveva invitato il governo francese ad effettuar la conquista dell'Egitto, comecché questo più non fosse che idealmente sotto il dominio della Porta Ottomanna. Più tardi egli presentò siffatta conquista come capace, mercé una brillante e pronta colonizzazione, a riempire il moto prodotto della perdita della regina delle Antille, testè sottrattasi all'autorità della Francia. Ecco quali erano i riflessi, su cui maggiormente appoggiavasi il progetto.
La raccolta si fa in Egitto nel marzo e nell'aprile, nel mese di maggio trovasi, già racchiusa nei magazzini. I venti etesi, che soffiano costantemente nella direzione del nord al sud, da maggio sino al solstizio d'estate, producono due effetti: il primo è quello di rinfrescare e purificare l'atmosfera del Delta e dell'Alto Egitto, il secondo di recare ed accumolare i vapori verso il mezzogiorno di questo paese, e riunirgli nel cuore dell'Etiopia, e sino alle sorgenti del Nilo. Le copiose pioggie, che ne sono il resultamento, ingrossano il Nilo, e portano l'inondazione in tutto l'Egitto. Così, nei mesi di luglio, agosto, e settembre questa regione è sotto le acque. Da tali fatti resulta che entrando in Egitto nel maggio si ha la sicurezza di trovarvi già fatta la raccolta, ed in conseguenza tutti gli approvigionamenti necessari per un'intiera annata. La sussistenza, e la conservazione dell'armata non debbe esser dunque cagione della menoma inquietudine. I mesi di maggio e di giugno sono più che bastevoli per sottomettere il Delta, e l'Egitto di mezzo prima dell'epoca dello straripamento. E' del massimo interesse il dar mano all'impresa improvvisamente e, dopo lo sbarco, marciare direttamante alla volta del Cairo, prendendo prima tutte le possibili precauzioni per la conservazione delle raccolte del riso e dei grani, che si troveranno fatte e riposte. La conquista dell'Alto Egitto verrà rimessa all'inverno dopo che l'acque si saranno ritirate. I campi si lavorano e si fa la sementa nel mese di novembre, perciocché sufficientemente sono in tal'epoca rascingati; per conseguenza nel dicembre e si nel gennaio il terreno essendo perfetto, si può imprendere e condurre a termine la conquista dell'Alto Egitto. Quindi, sbarcando nel corso del mese di maggio, la conquista dell'intiero Egitto può, e deve esser compita in nove mesi, e si avrà la sicurezza di due raccolte, l'una fatta e riposta all'epoca dello sbarco, l'altra, sopra terra nel momento in cui si dirigerà la marcia alla volta dell'Alto Egitto. I tre mesi d'inondazione daranno il tempo di fortificare Alessandria, Damietta, e Rosetta come l'istmo di Suez. L'istmo debbe esser fortificato mediante una linea ben guarnita l'artiglieria, unico mezzo di renderla inaccessibile agli arabi. Non bisogna perder di vista che l'Egitto può per due punti esser assaltato dalla parte di terra, cioè per l'istmo di Suez che confina coll'Arabia, e per Elefantina che è a contatto dell'Etiopia. In tal mutuerà i romani che conservarono l'Egitto per dei secoli con una sola legione.
Ma la conquista dell'Egitto quali resultamenti avrà per la Francia? Di due cose l'una: o si vorranno immediatamente a viva forza espellere gl'inglesi dell'Indie, oppure paghi d'annichilire il loro commercio in quel paese, contrapponendovi l'unico vantaggio della nostra posizione in Egitto. Nel primo caso nulla di più facile quanto il far passare in brevissimo spazio di tempo, mercé d'una squadra stanziata a Suez, qual numero di truppe che si vorrà tanto ai Maratti, quanto a Tippoo Saeb. Questi fatti sicuri d'esser da noi validamente sostenuti, appena saremo divenuti padroni dell'Egitto, comecché mortoli nemici degl'inglesi, accorreranno ad attaccarli d'ogni banda e loro faranno una guerra d'esterminio sin a che non gli abbiano espulsi dal Bengala, e dalle altre loro possessioni, ciò che immancabilmente e prontamente potranno condurre ad effetto col nostro soccorso. Quanto a noi sarà bastevole il prendersi e conservare a titolo d'indennità nell'India i porli di Trinquemala, e di Bowbay, ove faremo stanziare due divisioni della nostra squadra di Suez, che serviranno a proteggere e far rispettare il nostro commercio sulle coste del Coromandel dal golfo Persico sino al fondo di quello di Bengala. Nulla avremo da temer per parte degl'Indiani, che non hanno avuto nè mai avranno una marina militare, perciocché tale istituzione è contraria al loro sistema religioso. Nel secondo caso, quello cioè d'annichilire il commercio inglese dell'Indie, basterà lo stabilire dei magazzini di deposito al Cairo, ad Alessandria, ed a Marsiglia. Allora, dietro gli ordini spediti in quest'ultima città, le mercanzie dell'Indie scenderanno a Parigi, ed in tutti i porti dell'Oceano in un mese o sei settimane per il mezzo delle vetture, e per il canale di Linguadoca indipendentemente da quelle, che vi perverranno per la strada di mare. Per gl'inglesi non vi vogliono meno di diciotto a venti mesi per aspettare il ritorno delle loro navi; in pochi anni adunque, il commercio inglese coll'India,non potendo in verun modo sostenersi in simile concorrenza, sarà indubitatamente annullato. La Francia quindi avrà in pochi anni l'esclusiva possessione del commercio dell'Indie, e dei beneficj di siffatto commercio. Una sola cosa dimenticava l'autore e quella appunto che esser doveva la base del suo progetto vale a dire il rendersi padroni del mare, e nulla aver da temere per parte delle squadre inglesi, avvegnaché non era presumibile che i nostri rivali volessero starsi spettatori indolenti d'una tale spedizione. E precisamente questo piano senza base fu quello adottato dal Direttorio, e da Bonaparte.
Replicava l'autore in modo assai soddisfacevole a tutte le altre obiezioni, ma eludeva la principale e la più decisiva. Ei dimostrava a cagion d'esempio che i nostri soldati sopporterebbero senza inconveniente il calore del clima d' Egitto; che niuna inquietudine recar dovevano le forze dei bei o capi dei mamelucchi, milizia incapace di resistere alla disciplina ed all'artiglieria europea. Distrutta una volta quella milizia più non esisterebbe in Egitto una forza militare, perciocché gl'indigeni da più secoli degenerati erano inetti all'esercizio dell'armi, null'altro essendo men che soldati. D'altronde in prova della docilità degli egiziani recava la rassegnazione, con la quale sopportano il giogo dei bei, e dei mamelucchi. Io era ben lontano dall'avere alcuna idea dell'armamento che sta vasi apparecchiando, e meno ancora della sua destinazione, quando come tanti altri giovani mi precipitai in quella ardita intrapresa. La fama del supremo generale il lustro delle nostre armi avevarni sedotto; era quello un delirio, un entusiasmo quasi universale. Riferirò qui le particolari notizie che mi fu dato acquistare allo Stato Maggiore intorno ai preliminari dalla spedizione, notizie, che attinsi in documenti sicuri, e nella corrispondenza confidenziale durante il nostro soggiorno al Cairo. Fu su i primi del mese di marzo 1789, che il Direttorio decretò le misure preparatorie per la formazione dell'armata d'Oriente dietro una nota, che gli venne rimessa il cinque dello stesso mese dal general Bonaparte. Le prime disposizioni del Direttorio furono allibrate sulla nota medesima, che indicava Civitavecchia, Genova, Ajaccio, Tolone, Nizza, Antibo come porti d'armamento e d'imbarco di 25.000 uomini d'infanteria, e 3.000 di cavalleria senza i cavalli. Le prime spese dell'armamento erano valutate da otto a nove milioni, che per la maggior parte vennero estratti dal tesoro di Berna. Una commissione composta del contrammiraglio Duchayla, del commissario della marina Leroy, dal generale d'artiglieria Dommartin, dell'ordinatore Sucy, designati sotto il nome di commissione dell'armamento delle coste del Mediterraneo, venne incaricata di regolare tutto il materiale dell'armamento. Le truppe furono tostamente dirette verso i porti indicati, non meno che gli equipaggi d'artiglieria. Al generale Baraguey d'Hilliers fu affidata la cura dell'imbarco al porto di Genova, ove trova vansi pure i generali Vial, Seaux e Murat, l'imbarco di Civitavecchia fu comandato dal general Desaix, sotto gli ordini del quale erano i generali Friant, Muireur, e Belliard. Il general Vaubois presiedè agli armamenti di Bastia, Ajaccio ed altri porti dell'isola di Corsica. Il general Kleber fu impiegato sotto gli ordini del generale in capo nell'armamento che stavasi apparecchiando a Tolone, e che era il più considerevole. Si spedirono degli ordini perché il contrammiraglio Brueys, che con una gran parte della flotta era a Corfù, salpasse alla volta di Tolone. Intanto non veleggiava per il Mediteraneo un solo vascello inglese. Sulla fine del febbrajo il contrammiraglio Brueys fece vela da Corfù con sei vascelli da guerra e sei fregate francesi, cinque vascelli da guerra, e tre fregate venete, e due cutters predati agli inglesi. Il contrammiraglio Ferrée parti' d'Ancona con due fregate francesi e due veneziane, e tutte queste forze navali si diressero verso Tolone centro del generale armamento. Il contrammiraglio Brueys, prima di salpare alla volta di Tolone, fu promosso al grado di vice ammiraglio dietro la dimanda del general Bonaparte. L'affare di Bernadotte a Vienna persuase tosto il general Bonaparte ad ordinare lo sbarco delle truppe a Civitavecchia ed a Genova. Se mai gli affari si intorbidano, scriveva egli ai generali Desaix, e Baraguey d'Hilliers, gli sforzi degli austriaci saranno rivolti contro l'Italia. L'avvenimento di Vienna sul punto, in cui il generale in capo stava per recarsi a Telone, ne sospese la partenza, ma pochi giorni dopo videsi che la spedizione non n'avrebbe risentito verun cambiamento.
Quando sul cominciar di maggio io giunsi a Tolone, la città ed il porto offrivano il più animato ed imponente spettacolo. Arrivavano d'ogni banda delle vicine coste immensi convogli, una foresta d'alberi emerger sembrava dal mare, la spiaggia era ricoperta di soldati, di cavalli, e di attrezzi guerreschi. La divisione Kleber accampava alla Senna, villaggio non molto distante alla destra di Tolone; la divisione Mesnard stanziava dentro le mura di quella città. Eruditi, artisti,operai d'ogni professione riunivansi sopra i bastimenti, ed a quella grande impresa davano l'aspetto d'una crociata, che tutti esaltava gli spiriti. Fecesi la ripartizione degli officiali di sanità, che vennero per divisioni distribuiti nei principali vascelli da guerra sotto la direzione del signor Larrey chirurgo principale dell'armata. Erano essi provveduti di quanto era loro necessario, onde esser per ogni parte utili alle truppe, e non si dava bastimento al di sotto di cento uomini, che non avesse il suo officiale di sanità. Il medico in capo Desgenettes aveva diretto il ricevimento, e la preparazione dei medicinali. Il generale supremo giunse inaspettatamente a Tolone dal 9 al 10 di maggio. Erasi fatta circolare la voce che sarebbe venuto il ministro della marina e conseguentemente era per esso stato preparato un alloggio, destinato in sostanza per il general Bonaparle, l'arrivo del quale in siffatta maniera erasi voluto mascherare. Ei diresse tostamente i soldati di terra e dimare un proclama, che faceva presentire l'importanza della spedizione senza far nulla trapelare. Infiammati, e nell'agitazione erano tutti gli animi. Grande era l'impazienza di conoscere i luoghi, ove doveva l'esercito portar le sue armi, e domandavasi ciascuno qual ne fosse la destinazione. Gli uni citavano il Portogallo, il Brasile, l'Inghilterra; altri l'Irlanda, la Sardegna, o la Crimea; non dimenticavasi l'Egitto, e gli uomini di mare in special modó questo soprattutto accennavano. Ecco il ragionamento che udii farsi dal figlio del vice ammiraglio Thevenard, il quale aveva il comando del vascello Aquilone. Io non sono iniziato nel segreto del governo, ci disse egli, ma supponendo in lui dell'energia, e ben anco dell'audacia, gli suppongo egualmente dei lumi, e della prudenza. Ora il semplice buon senso dimostra a sufficienza che incrociando l'ammiraglio Jerwis nello stretto di Gibilterra, con una squadra dì lunga mano superiore alla nostra, ci è impossibile tentarne il passaggio, in ispecial modo con un convoglio di trecento vele, perciocché questo Sarebbe il colmo della demenza. E' dunque per me evidente che la spedizione non può esser destinata né per l'Oceano né per alcun punto del continente a contatto coll'Oceano. Quanto al Mediterraneo, la Sardegna non merita presso a poco le spese d'un tale armamento, nè la Sicilia può esserne maggiormente l'oggetto, avvegnaché il trattato di Campo Formio la pone per il momento insieme con Napoli al coperto d'ogni ostilità dal canto nostro. Finalmente la Crimea non essendo per noi accessibile per lo stretto dei Dardanelli, ed i turchi essendo in pace con la Russia, la Porta non può permettercene il passo. Credo quindi bastantemente dimostrato che l'armamento non prende di mira nel Mediterraneo né la Sardegna, né Napoli, né la Sicilia, né la Crimea, e meno ancora ha l'oggetto di distruggere qualche nido di corsari a Tunisi, Algeri, e Tripoli. Definitivamente adunque non può esser diretto se non contro l'Egitto. Facilmente mi convinsero le ragioni del1' abile marino, che ucciso poco dopo da nn colpo di cannone al combattimento navale d' Aboukir, meritò di essere a parte dei giusti elogi accordati alla condotta del suo camerata Du Petit Thouars. Ben presto dallo stato maggiore più non si dubitò che fosse l'Egitto lo scopo reale della spedizione. Il generale in capo aveva scritto da Parigi all'ammiraglio Brueys, che egli sarebbesi imbarcato a bordo dell' Oriente; che vi si facessero adunque buone provvigioni, e gli si preparasse un comodo letto, come ad un uomo che sarebbe malato per durante il tragitto. Il 18 ei s'imbarcò col general Bertier suo capo di stato maggiore, Dufalga comandante del genio, Dommartin comandante dell'artiglieria, il commissario ordinatore Sucy, l'ordinatore della marina Leroy, il pagator generale Esteve, il medico, e chirurgo in capo Desgenettes, e Larrey. Il generale aveva seco lui i suoi ajutanti di campo Duroc, Luigi Bonaparte, Croisier, Sulkousky, Julien, Eugenio Beauharnais, La Vallette, e Merlin figlio del direttore. Il capo di StatoMaggiore conduceva inoltre due o tre ajutanti generali, molti segretarj, alcuni officiali di seguito, dei quali io faceva parte. Le guide non erano per anco arrivate. Appena imbarcati si ebbe notizia che Malta era destinata come punto di convegno dei differenti convogli.
Sebbene le truppe fossero repartite tanto sopra i vascelli di linea, quanto sopra i bastimenti da trasporto, noi vedemmo distintamente che tutti i vascelli ne erano ingombri. Non si tardò a spiegare le vele. L'uscita dalla rada si effettuò il 19, in una mattinata superba, allo strepito ripetuto del cannone delle batterie dei forti, e dei vascelli di linea. La musica militare facevasi udire sui differenti vascelli in mezzo alle grida di gioja. Abbandonando la rada, l'Oriente, che era il vascello ammiraglio, fu in procinto di rompersi sulla montagna dei segnali, avvenimento che venne riguardato come un sinistro presagio; ma l'attività delle manovre, ed il sangue freddo dell'ammiraglio lo tolse d'impaccio. Noi ci mettemmo in viaggio al numero d'oltre dugento vele, ciò che formava una prospettiva magnifica, ne' dai tempi delle crociate in poi erasi veduto un consimile armamento nel Mediterraneo. Costeggiammo la Provenza fin verso Genova, d'onde si prese la direzione di Capo Corso. Il 21 maggio la calma ci tenne per due giorni al largo dello stretto di Bonifazio, ed in tal posizione noi si riunì il convoglio di Corsica composto di trenta bastimenti da trasporto, e scortato dalla corvetta la Mantova, ed appunto alle bocche di Bonifazio dalla parte di levante ebbe luogo quella riunione al gran convoglio ed alla squadra. Il convoglio di Genova in numero di centoventi vele era scortato dalle due galere genovesi sotto i segnali delle fregata francese la Seria. Egli raggiunse il convoglio principale all'alture del capo della Galuppa nel 29 al 30 maggio e dopo la riunione le galere serratesi verso la costa entrarono a Villafranca. E' falso che la flotta gettasse l'ancora all'isola della Maddalena, perciocchè soltanto si pose in panna davanti la baja di Cagliari, e qualche tempo dopo si drizzò il viaggio verso le acque della Sicilia, avendo perduti quattro giorni per attendere il convoglio di Civitavecchia capitanato dal general Desaix. Egli doveva riunirsi all'armata presso Capo Carbonara, davanti la baja di Cagliari, ma per effetto d'un ordine male inteso o male eseguito dal capitano dell'Artimisia, salpò troppo presto e giunse alla vista di Malta molti giorni prima della spedizione. Il 3 di giugno l'ammiraglio per mezzo d'un avviso ebbe noti da che davanti alla baja di Cagliari erano stati veduti tre vascelli e due fregate inglesi; vi furono tosto spediti tre bastimenti esploratori, ma il nemico era già scomparso. Il 7 giugno passammo a portata di cannone del porto di Mazzara in Sicilia, avendo a destra l'isola di Pantalaria. Le quattrocento vele riunite offrivano l'aspetto d'un immensa città galleggiante, che avanzavasi nel più imponente apparato verso il Canale di Malta. L'indomani, il 6, un brik inglese catturato da uno dei nostri bastimenti esploratori annunziò che la squadra dell'ammiraglio Nelson mandata sulle nostre tracce, non era a molta distanza, e siffatta notizia recò una lieve inquietudine al generale in capo. Il giorno seguente giungendo davanti a Malta la nostra squadra prese il convoglio di Civitavecchia per la flotta inglese: l'ordine di metter giù le brande fu dato ed il convoglio si pose sottovento; ma dopo i convenuti segnali fu riconosciuto l' errore.
Avanzandosi la squadra in linea di battaglia fu ordinato lo sbarco per impadronirsi a viva forza di Malta, avvegnachè quest'isola consideravasi siccome la chiave dell'Egitto. Non s'ignora che tutto era stato di lunga mano preparato per cagionarvi una rivolta, e la distruzione dell'Ordine. In fatti più si adoperarono gl'intrighi ed i negoziati, che la forza dell'armi. Il 10 io fui incaricato dal maggior generale di recare al generai Reynier, che era a bordo della fregata Alceste, l'ordine di rendersi padrone dell'isola di Gozo situata circa una lega di distanza al nord di Malta. Difendevano quell'isola alcuni corpi di milizie, composte d'abitanti, ed un reggimento di guarda coste, in tutto duemila uomini, che erano repartiti sui differenti punti muniti di forti e di batterie. Il generale sollecitato ad eseguire gli ordini del comandante supremo ragunò il convoglio, distribuì i segnali, e si diresse verso la costa, ove attesa la variazione dei venti, e la sopravvenienza della calma non gli fu possibile avvicinarsi. Era tuo intendimento evitare i forti ed i baluardi, onde non esporre i legni e le truppe al fuoco delle batterie delle coste; quindi scelse come luogo dello sbarco il dirupato e scoscesissimo punto di Redum Ribir, che gli abitanti riguardavano come al coperto d'ogni pericolo. A un'ora dopo mezzogiorno Reynier fece imbarcar delle truppe in tutti i canot e le scialuppe, e partendo egli stesso dalla fregata l'Alceste a bordo d'un canot con una compagnia di granatieri, si avvicinò a terra seguito dalle bombarde il Piviere e la Stella e comandò lo sbarco. Io mi trova va nella scialuppa stessa dell' diceste unitamente ai generali Beynier,e Fugier, all'ajutante di campo Luigi Bonaparte, i capitani del genio Sabatier, e Geoffroy, e la compagnia dei granatieri della 35ma mezza brigata. Distintamente scorgemmo le milizie, che vedendoci avvicinare correvano d'ogni banda per guadagnare le alture, noi facemmo forza di remi, ma già gli scogli erano muniti di milizie, e di villici, i quali, allorché le scialuppe furono a portata, fecero piovere sopr'esse una grandine di palle. Il sargente maggiore dei granatieri Bertrand cadde morto al mio fianco. Le batterie intanto cominciarono a trarre sopra di noi, mentre dugento uomini erano schierati sui ciglioni della scogliera, che domina il punto, ove approdavano le nostre scialuppe. Ad ogni momento il numero dei nemici aumentavasi; ma noi sbarcammo con tal prestezza e quasi senza tirare malgrado il ripido pendio formato dagli scoscendimenti del terreno e dalle rupi, malgrado i massi di pietra che gettavano addosso di noi i nemici, ed il loro fuoco. L'audacia dei nostri granatieri, che ad onta degli ostacoli sempre si avanzavano, talmente li sconcertò che non tardarono a prender la fuga tosto che videro i primi assalitori sulle alture. Pochi minuti bastarono per decider della sorte del combattimento, e già lo era prima che le altre scialuppe avessero preso terra. Le bombarde tirarono molto opportunamente sopra le batterie, e quella di Ramela fu presa da un pugno di granatieri.
A misura che le truppe sbarcavano il generale facevale riunire e prestamente marciava con una parte della mezza brigata alla volta della città di Chambray, onde impadronirsi di quel forte e tagliar la comunicazione di Gozo coll'isola di Malta. In pari tempo una porzione della nona mezza brigata si avanzava contro il castello di Gozo, ed un distaccamento contro la torre di Formio. Durante la marcia si ebbe notizia che Chambray era ripiena di abitanti, che vi si erano riparati coi loro bestiami. Il generale per mezzo di alcuni campagnuoli, che ci erano venuti incontro, inviò loro un proclama per informargli delle sue intenzioni, ed impedire una vana difesa, che loro sarebbe riuscita funesta; nel tempo istesso gli assicurava che se opposta non avessero un'inutile resistenza rispettato sa rebbesi il loro culto, e nulla avrebbero avuto da temere per le loro proprietà. Siffatti negoziati ebbero il più felice resultamento; gli abitanti, che volevano dare l'ingresso del forte alle nostre truppe, insorsero contro i cavalieri di Malta, ed essendo fatti in pezzi i ponti levatoi, calarono ai nostri delle corde per aiutargli ad entrare il generale, dopo aver lasciate tre compagnie davanti al forte di Chambray, si pose in marcia alla volta del castello di Gozo. Appena gli aiutanti di Rabato, e del castello ci videro giungere, ci spedirono incontro dei deputati per attestarci la loro sommissione, e consegnarci le chiavi del castello. Erano nel forte un governatore e molti cavalieri di Malta, che più non avendo alcuna autorità cercarono involarsi alle nostre ricerche; ma gli uni si presentarono in seguito eglino stessi, gli altri vennero arrestati. Siccome impegnato erasi in molti punti il combattimento, così le nostre truppe avevano inseguiti i fuggitivi, ciocché avendo gettato il terrore fra gli abitanti, diede motivo a gravi disordini nei villaggi; s'incominciò il saccheggio, alcune femmine furono anche violate, ma il generale accorse tostamente a ristabilire la disciplina, e fece rimbarcare tutte le truppe ad eccezione d'otto compagnie. Gli abitanti ritornarono con i loro bestiami alle respettive case, e ripresero le consuete loro occupazioni. Si usò a loro riguardo la maggior dolcezza, ed alcuni che avevano riportata qualche ferita vennero curati dai nostri officiali di sanità. Trovammo nell'isola oltre cento pezzi di cannoni, ed alcuni magazzini di grano; ma sebbene ella sia coltivata con diligenza, siccome la coltura consiste quasi intieramente in cotone, poche risorse presentava per la sussistenza: il vino che era riposto nelle cantine fu ben presto consumato. La popolazione dell'isola era d'altronde considerevole, perciocché poteva valutarsi a quindicimila anime in circa. Furonvi degli abitanti, i quali credendo distrutto l'Ordine di Malta, persuadevansi che loro sarebbero state divise le terre, e già s'impadronivano dei terreni, che credevano più convenienti ai loro interessi. Il generale fece quindi annunziareche le terre dell'Ordine considerate sarebbero come dominj nazionali. L'isola mi parve d'un'estensione di quattro leghe di lunghezza sopra due di larghezza. La di lei sorte è stata mai sempre un corollario di quella di Malta; essa però è d'assai più ridente e per conseguenza meno sterile, ed io vi ho veduti moltissimi alberi, ed una non piccola quantità di sorgenti.
Quando io feci ritorno a Malta, tutto era già sottommesso ed i forti occupati dalle nostre truppe. Piuttosto defezione che pugna potè quella nomarsi: e si era terminato concludendo un trattato col gran maestro, il quale di troppo avventuroso reputossi,quando gli fu assegnata in nome della Repubblica una pensione di centomila scudi. L'armata navale era entrata nel porto di Malta, ed alle bandiere dell'Ordine erasi sostituito il vessillo tricolore. Il generale in capo fece il suo ingresso in Malta alla testa delle truppe, che avevano posto piede a terra, e discese al palazzo del marchese Paradisi nobile del paese, ove tenne consiglio con i capi dell'esercito. Ciò che in quella miracolosa conquista aggradevole parve agli occhi nostri assai più dei cannoni, dei fucili, e delle munizioni da guerra, fu il tesoro della chiesa di s.Giovanni valutato in tre milioni. Berthollet registratore dell'armata, ed un commesso del pagatore ebber l'incarico d'esportarne l'oro, l'argento e le pietre preziose, che quella chiesa ed altri luoghi dipendenti dell'Ordine arricchivano, non meno che l'argenteria dei palagi, e quella del gran maestro. Nell'indomani, 14 giugno, si diede mano a fondere tutto l'oro in verghe, per esser trasportato a bordo dell'Oriente nella cassa del pagator generale al seguito dell' armata. Drizzossi un inventario di tutte le pietre preziose, che furon riposte sotto suggello nella cassa medesima, e si cambiò una parte dell'argenteria in monete d'oro e d'argento, che in eguai modo furon versate nella cassa dell'armata. Era di sì felice presagio la presa di Malta che il general Bonaparte destinato si credè fin d'allora a porre in rivolta l'Affrica e l'Asia, ed a far il conquisto d'Oriente. Adoperossi ei ben presto sul falso dato, nei gabinetti europei accreditato al maggior segno, che l'ottomanno impero per vetustà indebolito stava per crollare e dissolversi, e che uopo era affrettarsi a partecipar delle spoglie. Suo debito credè quindi il procurarsi intelligenze ed appoggi fra i pascià, che maggiormente essendo a sua portata, avevano per altra parte nome di più indipendenti dalla Porta ottomanna o di almeno più scevri dell'influenza di lei. Niuno è che non veda che io voglio parlare del celebre Ali satrapo di Giannina in Albania ed in Epiro. Il general supremo fecesi sollecito ad inviargli il suo ajutunte di campo La Vallette con particolare mandato.
Nelle sue istruzioni all'ajutantedi campo raccomandavagli il generale in capo di dar fondo sulla costa dell'Albania, ond'essere a portata di conferir con Ali. L'annessa lettera, che voi dovete rimettergli, aggiungeva il generale, a null'altro è diretta se non a persuaderlo a prestar fede a quanto voi gli direte, ed a pregarlo a darvi un turcimanno sicuro per intrattenervi da solo a solo con esso lui. Gli consegnerete da per voi stesso la mia lettera, onde aver così la certezza ch'ei l'abbia letta. Quindi gli direte che essendomi testè fatto padrone di Malta, e trovandomi nelle sue mura con trenta vascelli, e 50.000 uomini avrò con esso delle relazioni, e che desidero sapere se posso su di lui far conto per l'oggetto, di cui voi siete incaricato; che aggradevole mi sarebbe non meno che egli inviasse presso di me, imbarcandolo sulla vostra fregata, un uomo distinto, il quale godesse di tutta la sua fiducia; che in riguardo dei servigj da lui resi alla Francia, della sua bravura e del suo coraggio, s' ei mostra in me fiducia, e non ricusi secondarmi, io posso di gran lunga accrescere il suo destino ed aggiunger lustro alla sua gloria. Voi prenderete, generalmente parlando, nota di tutto ciò che vi dirà Ali pascià, e vi rimbarcherete sulla freguta per tornare a rendermi conto dell'operato. Passando per Corfu' direte al generale Cliabot, il quale ivi lui il comando, che ci spedisca dei bastimenti carichi di legname, e provvegga non meno la squadra di vino, e di uve secche, di cui riceverà a buon mercato il pagamento. L'ajutante di campo La Vallette pose tosto alla vela a bordo della fregata l'Artemisia, ed il 5 luglio entrò nel porto di Corfù, ove ei consegnò i suoi dispacci al generale Cliabot, dal quale, non meno che dall'ajutante general Rose testé tornato da Giannina, ebbe notizia che Ali non trovavasi in quella città, ma bensì al campo sotto Vidino diretto contro Passavan Oglow. Aveva Ali formato il suo contingente di 15.000 uomini, ed a lui era stato affidato il comando supremo di tutto l'esercito turchesco. L'aiutante generale Rose, incaricato per parte del Direttorio di una missione consimile a quella di La Vallette aveva trovato a Giannina soltanto i due figli del pascià Mouktar e Willy, coi quali, accolto con onorevoli dimostrazioni, erasi abboccato. Dopo avergli notiziati delle vittorie riportate da Bonaparte, consegnò ad essi una lettera del ministro della marina per il padre loro scritta dietro un ordine del Direttorio, ed assicurogli dell'amore della gran nazione. Aveva il Direttorio, per fare un tal passo presso il satrapo di Giannina, presa occasione dai soccorsi, che aveva Ali' pascià somministrati per l'approvvigionamento della nostra squadra, la quale durante il verno aveva stanziato nelle acque di Corfù, e dalle continue offerte che fatte egli aveva di fornire ai francesi tutte le derrate, delle quali avrebbero abbisognato. A Parigi, del pari che a Malta, sentivasi l'importanza di conciliarsi nel tempo dell'egiziana spedizione Ali pascià, che inquietarci poteva tanto a Corfù che nell'Italia. Tutto fu posto in opera per catturarsi la sua amicizia in un momento, in cui la spedizione poteva contro di noi indisporre la Porta Ottomanna. Non potè però l'ajutante di campo La Valette compiere presso di Ali la missione, della quale incaricato avevalo Bonaparte, attesa l'assenza di quel pascià. Ciò non pertanto la lettera scrittagli dal generale fugli inviata al campo di Vidino; ma non partorì favorevoli effetti. Avvegnachè dichiaratasi tantosto la Porta contro la Francia, e vedendo tutta congiurata l'Europa ai nostri danni, troppo accorto era Ali per non seguire il torrente. Quindi pochi mesi dopo ci fu estremamente dannoso contribuendo non poco ad espellerci dal territorio dell'Epiro dirimpetto a Corfù, e da quell'isola stessa, ogni specie di soccorso prestando alle flotte ottomanne e russe, poiché si vide quel che non erasi veduto giammai, la mezza luna unita alla croce greca.
Noi ci eravamo cinque o sei giorni riposati a Malta. Il general in capo dopo aver regolata l'amministrazione dell'isola, che egli assoggettò ai repubblicani istituti, dopo aver vuotati i granaj, ed i magazzini, posti a sacco i tesori e via portati gli archivi dell'Ordine lasciò nell'isola un presidio di 4000 uomini circa sotto il comando del general Vaubois, e si affrettò a rimbarcarsi con tutto lo stato maggiore, ordinando il 18 giugno, che l'armata salpasse l'indomani per recarsi al suo destino. Mostravasi il generale di tanto più impaziente di por piede in Egitto, quanto maggiormente era fatto certo che il suo armamento era lo scopo delle ricerche della britannica flotta. Spedito aveva a Cagliari in qualità di console l'officiale di marina Augier per informarsene. Sotto l'isola dell'istessa Sardegna, ch'ella aveva costeggiato in pari tempo che noi, quella flotta avevaci fallito, ed in seguito erale sfuggitogli convoglio di Civitavecchia composto di 57 bastimenti, che portavano 7000 uomini. Era da temersi che non la trovassimo nell'acque d'Alessandria, ove direttamente ci spingevano i venti occidentali, che regnano nell'estiva stagione. L'ordine fu dato dall'ammiraglio a tutti i vascelli esploratori d'arrestare quanti bastimenti avessero incontrato, e di forzargli a seguitare l'armata, essendo questo l' unico mezzo d'impedire che la flotta inglese procurar si potesse un qualche lume sulla marcia della nostra spedizione. In capo a qualche giorno di navigazione scuoprimmo le alte montagne dell'isola di Candia ricoperte dalla neve, ed entrati in alto mare, il 30 giugno arrivammo nelle acque dell'Affrica.
L'indomani allo spuntar dell'alba, tredici giorni dopo la nostra partenza da Malta, e quarantatre da che avevamo salpato da Tolone, scuoprimmo una costa in singolar modo piana e sabbiosa, in tutto simile a quella, che fronteggia l'Oceano tra Gravelines, e Calais. Non molto dopo si distinse la Torre degli arabi a destra di Alessandria, e a ore otto e mezza della mattina' scorgemmo i minareti di quest'ultima città. Magellon console di Francia venutoci incontro ci annunziò a bordo della fregata la Giunone, che una squadra inglese di quattordici vascelli di linea, due dei quali a tre ponti, era passata due giorni avanti a vista d'Alessandria, e che sembrava aver presa la direzione d'Alessandretta nella speranza d'ivi incontrarci. Tale era la critica situazione, nella quale ei trovavamo, che era possibile esser sorpresi dalle navi britanniche in mezzo all'esecuzione dello sbarco. Sentiva il generale in capo la necessità d'agir prontamente sì per togliere Alessandria agli inglesi, che per lo sbarcare prima della loro comparsa. Ma il mare era grosso; i vascelli gettavano l'ancora a due leghe al largo, ed i marinari consideravano come impossibile lo sbarco a cagione della violenza dei venti, e della scogliera, che corona la baja di Marabou. Nulla però fu capace di trattenere il generale in capo, il quale ordinò tutti i preparativi dello sbarco, e tanto maggiormente gli sollecitò, quanto più grande conoscevà la necessità di porre la squadra al sicuro da un combattimento, che sarebbe stato ineguale nel disordine d'un primo ancoraggio in un incognito fondo. A quattr'ore di sera il generale montò a bordo di una mezza galera di Malta insieme col suo stato maggiore, onde più da vicino accostarsi al la piaggia; circondavanlo scialuppe, e canotti. Prolungatisi sino a undici ore di sera i preparativi,la mezza galera, che portava Bonaparte, quanto più poté si avanzò attraverso gli scogli del forte Marabou situato due leghe all'ovest di Alessandria; e fu tosto dato ordine ai legni, che portavano una parte delle divisioni Bon, Kleber, e Menou di sbarcare sulla riva, malgrado un mare fluttuoso, ed un vento procellosissimo. I nostri soldati ammassati nei canotti venivano gettati sopra una costa seminata di rocce e di scogli fra le tenebre di una notte oscura. Udivansi confuse grida partire dalle barche cariche di truppe, che erravano in balia delle onde e dei venti, e chiedevano inutilmente soccorso. Un gran numero di soldati sbarcando sopra ignoti scogli perirono trascinati via dalle ondate, senza che possibil fosse salvarli. La divisione Menou fu la prima a porre a terra una parte delle sue truppe. Ma la mezza galera, sopra la quale trovavasi lo stato maggiore generale, provava i più grandi ostacoli per tener dietro ai canotti, che approdavano alla spiaggia; essa avea dato fondo ad una mezza lega di distanza dalla terra nella oscurità della notte. A un'ora di mattina Bonaparte,reso consapevole che non veniva opposta veruna resistenza, e che le truppe sbarcate si dirigevano per plotoni alla volta d'Alessandria, gettossi in un canot, seguito dai generali Berthier, Caffarelli, e Dommartin, ed a poca distanza da Marabou pose piede a terra. L'artiglieria ed i cavalli erano per anche sulle navi. Il generale oppresso dalla stanchezza e dal sonno insieme col suo stato maggiore, disposta intorno a se una forte guardia, si sdrajò sulla sabbia, e dormì due ore, mentre compiovasi lo sbarco.
L'antiguardo, composto di 3.000 nomini, marciò tutta la notte. Sulle ore tre della mattina il resto dell'armata, formatosi in tre colonne, prese l'istessa, direzione. Io marciava ora collo stato maggiore, ora colla colonna del centro, attraversando un deserto arido di due o tre leghe, ove non iscorgevansi nè alberi, nè acque,ma soltanto qua e là qualche monticello di sabbia. Gli officiali ed i soldati alla vista delle ruine, e dei deserti, che circondavangli, furono da stupore colpiti. Il generale in capo scendendo a terra coi bersaglieri dell'antiguardo, e passando coi suoi officiali di stato maggiore ed i suoi ajutanti di campo davanti alle colonne, che stavano ordinandosi, tutto rianimò colla sua presenza. Leggevasi nei suoi sguardi che la felicità, da cui era accompagnato nelle sue imprese, non lo avrebbe questa volta tradito. Soffermossi egli presso la colonna di Pompeo, situata fuori del recinto dell'attuale città. Quel prezioso avanzo dell'antichità è formato d'un solo pezzo di granito rosso, e s'eleva all'altezza di cento piedi; il suo fusto ha nove piedi di diametro, e cinquantasei di lunghezza.
Le tre colonne, dopo aver posti in fuga diversi plotoni di beduini a cavallo, investirono la città. Il generale distaccò molti officiali per riconoscere il nuovo recinto detto dogli Arabi, da cui è racchiusa la moderna Alessandro. Sapevasi per mezzo del viceconsole, che la città era difesa da circa 500 giannizzeri senza disciplina e male armati, i quali per la maggior parte difendevano mura fuori di stato eli resistere ad una scalata. Alcuni francesi furtivamente usciti, recarono la notizia che i mamelucchi ed i principali arabi si erano riparati nel deserto, che una parte della popolazione cercato tumultuariamente aveva un refugio nei forti, e che la più gran confusione regnava nella città. Ricevuto l' ordine dell'attacco, abbenché senza un solo pezzo d'artiglieria, i nostri soldati marciando sulle rovine dell'antica città, giunsero ai baluardi, e furiosamente vi si precipitarono. I turchi tirarono qualche colpo mal diretto di cannone, ma eravamo già ai piedi delle semidirute mura. Ivi affrontammo la moschetteria e le pietre, che gli arabi ed i turchi contro di noi lanciavano; ma non per questo si restavano i nostri soldati dal montare all'assalto su per i rottami dei muri, che loro servivano di breccia. Gli aiutanti armati dai tetti e dalle case fecero un fuoco di moschetteria, per cui caddero circa 150 uomini che formavano parte delle tre colonne d'attacco. Quelle, che erano guidate dai generali Menou e Kleber furono le più maltrattate, e questi generali, non meno che l'ajutante generale Lescale, riportarono eglino stessi delle ferite cagionate dal fuoco, che partiva dalle mura e dalle abitazioni. Avremmo potuto evitare una tal perdita se avessimo intimata la resa, ma volle il generale in capo incominciare dallo sbigottire il nemico ed inspirargli terrore. Alle ore undici Alessandria era già in nostro potere. I bersaglieri nemici,i quali sapendo appena servirsi del loro fucile, eransi difesi dalle finestre, più non esistevano,o avevano cercato sottrarsi alle nostre ricerche.
Da ogni lato respinti, i turchi si refugiavano gli uni nelle foreste, gli altri nelle loro moschee. Ivi uomini, donne, vecchi e fanciulli erano tutti massacrati, nè i soldati ponevano fine al saccheggio ed alla strage che al termine di quattr'ore. Una tranquillità cupa e ferale regnava nella città: i forti capitolarono. Quelli fra gli abitanti, che sopravvivevano a quell'orribile calamità, stavansi incerti e tremanti, e, nuiraltro a se vedendo dintorno che la sanguinosa immagine della morte, parevano maravigliati che loro si lasciasse la vita. L'indomani essi, non meno che gli arabi della campagna, ci parvero alcun poco rimessi dal loro spavento, e mostrarono in noi bastevol fiducia. Con una specie d'estasi eglino leggevano i proclami, che il generale aveva tatti stampare in arabo, e che loro promettevano protezione e sicurezza. Vedemmo nel bazar, qualche provvigione, dei montoni, dei piccioni, del tabacco da fumare, e in ispecial modo dei barbieri, che radevano i loro ricorrenti ponendosene fra le ginocchia e la testa. Nulla io aveva giammai veduto di miserabile e triste al pari della moderna Alessandria, che pure è il porto più commerciante dell'Egitto. In una città, ove tutto si trae dall'esterno mercé della fiducia, e coll'attrattiva del guadagno, non doveva regnar l'abbondanza dopo la crise della conquista. Quindi a misura che l'armata giungeva, incontravasi la maggior difficoltà per procurarsi dei viveri ed alloggiare i soldati. Ma al quartier generale, che stanziava all'estremita della città, tutto presentava un'aspetto di movimento e di vita; sbarcavano truppe, altre ponevansi in marcia per attraversare il deserto alla volta di Rosetta. I generali, i soldati, i turchi, gli arabi,tutto formava un contrasto, che bastantemente indicava un gran cangiamento dove si operare sulla faccia del paese. In mezzo a siffatta confusione mostravasi il generalissimo, regolando la marcia delle truppe, la polizia della città, le precauzioni sanitarie, delineando nuove fortificazioni, coordinando i movimenti dell'armata navale con quelli dell'esercito di terra, e indirizzando alle atterrite tribù degli arabi confortatrici proclamazioni. Due giorni dopo, dodici o quinici arabi beduini recaronsi in deputazione ad offerire in nome della tribù, alla quale appartenevano, la loro alleanza. Il generale in capo cortesemente accoglievali, faceva loro dei doni, e distribuiva a ciascuno di essi dieci luigi. Promesso avevano di ritornare il dì seguente, ma avendo mancato alla data parola, noi più non dubitammo che fossero venuti a spiare. Dopo quattro o cinque giorni di riposo, il generale in capo, che aveva già fatta partire la divisione Desaix in qualità d'antiguardo verso la riva del Nilo, comandò che il resto dell'armata si ponesse in viaggio. Le divisioni Bon, Reynier, e Menou dovevano l'una all'altra succedersi. La divisione Kleber, capitanata dal general Dugua, perocché il primo era rimasto ferito ad Alessandria, si dirigeva contro Rosetta per impadronirsi di quella città, e lasciatavi una guarnigione, risaliva la manca riva del Nilo fino all'altura di Damanbour, primo villaggio sul fiume, ove riunire dovevasi il grosso dell'esercito. Una flottiglia sotto il comando del contrammiraglio Pérrée ricevette ordine di recarsi a Rosetta, e rimontare il Nilo seguendo la marcia di Kleber. Portava ella delle truppe, ed aveva a bordo il generale Andreossi, che era stato direttore degli equipaggi dei ponti nella campagna d'Italia.
Tratto da:
"Memorie istoriche sopra la spedizione in Egitto di N. Bonaparte", Volumes 1-3, Niello Sargy, Firenze, 1834